
IL RACCONTO
Nell’aprile 2016, Lucia Goracci è stata tra i primi giornalisti ad entrare in città.
Situata a 240 km a nord-est di Damasco e 200 km a sud-ovest della città di Deir ez-Zor, che si trova sul fiume Eufrate, la città è conosciuta come la ‘Sposa del deserto’ perché qui i mercanti attraversavano il deserto collegando l’Occidente (Roma e le principali città dell’impero) con l’Oriente (la Mesopotamia, la Persia, fino all’India e alla Cina).

L’arrivo a Palmira è attraverso un territorio in guerra, tra carri armati nascosti nella sabbia e posti di blocco militari. L’esercito siriano l’ha da poco ripresa all’Isis, con l’appoggio determinante dei bombardamenti russi.
E noi siamo tra i primi giornalisti ad entrare. Non è solo la Perla del deserto sin dal mondo antico, la città è anche snodo strategico sulla via di Raqqa e Deir ez-Zour. Su queste due roccaforti del gruppo islamico si concentrerà la battaglia finale.
Entrando nell’antica città dieci mesi dopo che ci arrivò l’Isis. Si va subito a vedere innanzitutto cosa è andato distrutto.
I marmi rosati del tempio di Balshamin sono polvere ai piedi dell’unico portale rimasto intatto. Era uno dei monumenti più conosciuti del sito archeologico che nel 1980 fu designato patrimonio dell’Unesco. Il tempio è stato il primo a saltare in aria. Era dedicato a un dio fenicio, dio del cielo associato alla fertilità dei campi alle piogge. L’esplosione che lo ha distrutto è stata così violenta da danneggiare anche i colonnati intorno. Poi toccò all’arco di trionfo, poco distante, che ora allunga verso il cielo azzurro il suo moncone muto.
Siamo nel teatro romano di Palmira, nei dieci mesi dell’occupazione dell’Isis, rimasto fortunatamente intatto.
Ma queste pietre hanno dovuto assistere a una delle scene peggiori. Caduta la città, gli uomini dell’Isis hanno fatto sfilare soldati dell’esercito siriano, finiti loro prigionieri, li hanno sottoposti ai loro processi, alla loro giustizia sommaria, poi li hanno fatti inginocchiare e a sangue freddo li hanno uccisi. L’Isis per non farsi dimenticare ha lasciato ovunque le sue scritte maligne. Patrimonio dell’Unesco, la città è stata ritrovata quasi intatta. Profondi sono i danni inferti negli spettacolari video che abbiamo dovuto assistere in questi mesi, il Tempio di Baalshamin è tra le ferite aperte.
L’ingresso in città è tra i fumi neri dello sminamento, ettaro dopo ettaro i russi l’hanno bonificata da migliaia di mine, ma restano chilometri di territorio da sminare.
Ecco la piazza dove è stato esposto il corpo decapitato di Khaled Asaad, l’archeologo più famoso in città, aveva più di ottant’anni. Ucciso perché si è rifiutato di rivelare alle squadre dell’Isis dove aveva nascosto i tesori della città medievale. Pezzi archeologici di pregevole valore buttati in strada come fossero spazzatura. Questa è la Palmira nuova, dove almeno 50 mila persone hanno dovuto abbandonare le proprie case.
Erano 100 mila gli abitanti dell’antica città. Gli autobus da Homs vengono organizzati per riportarli, anche solo per poche ore, alle loro case divenute i covi del califfato nero.
Oggi restituiscono di tutto, come il manifesto del buon musulmano che illustra, passo passo, come prepararsi alla preghiera. Le strade sono scavate, i canali erano riempiti di esplosivo. Tutti gli ordigni – ci viene raccontato – erano stati collegati alla centrale telefonica cittadina. Appena fosse stata rimessa in funzione, l’intera città sarebbe saltata in aria. Sono le prime ricognizioni all’interno dentro la città, dai luoghi tristemente noti come come l’originaria prigione cittadina, da dove veniamo tenuti lontani. Il ritorno in città è un bel colpo per l’immagine del governo di Bashar al-Assad. Non si vogliono ombre, operazione non difficile quando il nemico è lo Stato Islamico. In questa fossa comune sono stati trovati i corpi di 40 persone, tra questi anche donne e bambini.
Il tribunale di Palmira divenuto prigione militare dell’Isis. Scendiamo nei sotterranei con i soldati che hanno ripreso la città.
Allo Stato Islamico non fa difetto la fantasia, sulle porte compaiono scritte come gironi danteschi. Qui per esempio venivano rinchiusi gli incoerenti. Tra i prigionieri, evidentemente, c’erano anche quelli di loro che avevano sgarrato. Gli elenchi coi nomi segnalano il reato commesso: uno è accusato di aver abbandonato un turno di guardia, l’altro di aver bestemmiato, un altro di aver rubato. Inflessibile anche con i suoi, il Califfato nero. La shahāda, la professione di fede, è ovunque. I prigionieri hanno lasciato dietro di sé disegni. C’è un arco di trionfo ancora in piedi con un uccelli in volo, un’immagine che vuole essere idilliaca ma mette angoscia come il resto. Intanto in superficie la vita ritorna, gli abitanti scoprono se la loro casa è ancora in piedi. Portano in salvo l’essenziale a una vita da sfollati. Vengono, anche solo per uno sguardo, nella città dove hanno sempre vissuto dove sperano di poter tornare.