Quella di Paolo Borsellino è la storia di un uomo che ha vissuto gli ideali al costo della sua stessa vita. La sua non fu una scelta di virtuosismo etico, ma l’esito di un’etica di-questo-mondo, che si esaurisce integralmente nel rispetto del dovere quotidiano. E’ grazie a lui, all’amico fedele Giovanni Falcone e ad altri martiri del nostro tempo, che si è potuta definire e delimitare la mafia siciliana, quale società organizzata complementare allo Stato.

Borsellino, gioventù
La sua storia da magistrato comincia molto presto, nel 1963, a 23 anni. Appassionato di Diritto, aveva potuto studiare all’università grazie a borse di studio e a piccoli lavori, come la stesura di tesine per gli studenti. Il padre era morto a soli 53 anni e Paolo, di fatto, era diventato il capo-famiglia. La farmacia dei Borsellino non rendeva abbastanza e “nostra madre”, racconta il fratello Salvatore, “ogni giorno non era sicura di poter apparecchiare la tavola anche per cena”.
All’inizio si occupa solo di cause civili, poi passa al penale. A trentanove anni il suo nome balza all’onore delle cronache: Borsellino compare sui giornali per un’inchiesta sui rapporti tra mafia e politica nella gestione degli appalti pubblici. È il 1980, l’anno in cui Cosa nostra cambia volto: ai vecchi uomini d’onore si sostituiscono i sanguinari corleonesi capitanati da Totò Riina. E’ l’anno in cui il procuratore capo di Palermo Rocco Chinnici concepisce il Pool antimafia, del quale Borsellino entra a far parte insieme a Falcone. Quello con Chinnici è un incontro importantissimo nella vita di Borsellino. Come racconta la sorella, Rita, “in Chinnici, Paolo trova la figura paterna che aveva perso quando era giovane”. Proprio l’umanità, il rispetto reciproco e l’affiatamento sono le caratteristiche della straordinaria squadra messa insieme da Chinnici, il cui obiettivo è combattere Cosa Nostra con quei metodi nuovi grazie ai quali la mafia non sembrerà più un fenomeno invincibile.

Luglio 1984, estradizione e arrivo in Italia di Tommaso Buscetta
Ma questi, sono anche gli anni in cui Borsellino vede morire, uno dopo l’altro, per mano di Cosa nostra, i suoi collaboratori: Boris Giuliano, Emanuele Basile, Antonio Cassarà. “Cominciai a occuparmi di mafia quasi per caso- racconterà più tardi- lo feci perché Rocco Chinnici mi chiamò. Poi vidi che la gente mi moriva attorno e allora capii che quello doveva essere il mio lavoro, quello era il male della nostra terra e quello era ciò che dovevo combattere”.
La lotta al potere mafioso per Borsellino non può basarsi unicamente sulla repressione: è necessario un processo di rieducazione sociale e culturale che parta dal basso. I giudici possono agire solo in parte nella lotta alla mafia, diceva da magistrato attento anche a cogliere i segnali della società. E aggiungeva: se la mafia è un’istituzione antistato che attira consensi perché ritenuta più efficiente dello Stato, è compito della scuola rovesciare questo processo perverso, formando i giovani alla cultura dello Stato e delle Istituzioni”.
Il 1986 è l’anno in cui il lavoro del pool mette a segno un colpo storico nella lotta alla mafia. Le dichiarazioni del primo pentito di mafia, Tommaso Buscetta, avevano svelato l’organizzazione di Cosa nostra e le sue regole. Ha inizio così il più grande processo penale mai celebrato al mondo. Il cosiddetto Maxiprocesso coinvolge 475 imputati e 200 avvocati difensori. Infligge pesanti condanne, 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione, tutte confermate dalla Cassazione dopo un articolato iter processuale. E’ il gennaio del 1992. Il Maxiprocesso ha compiuto il suo corso. E decreta, anche, la condanna a morte di Paolo Borsellino e di Giovanni Falcone. Aprendo un’altra storia di mafia, ma non solo.