L’Italia sepolta

Files24, Speciale Terremoto 1980. Un racconto di Antonio Caggiano, Domenico Di Cesare, Maurizio Morganti e Alessandra Solarino. Coordinamento di Angelo Saso
C’è un prima e un dopo 23 novembre 1980. Una linea di demarcazione nella coscienza civile del Paese che ha modificato l’idea preesistente di comunità nazionale e ha tracciato un solco profondo e concreto nella nascita dell’idea di quella che poi è diventata la moderna Protezione civile.
-
90 secondi distruggono la quotidianità definita
-
La scossa colpisce l’area centro meridionale dell’Italia, una superficie grande quanto l’intero Belgio
-
Dei 679 comuni che costituiscono le otto aree interessate globalmente dal sisma, 506 conteranno i danni
-
La devastazione tagliò i ponti con il mondo reale
-
Cinque giorni allo sbando in attesa della macchina istituzionale
-
La ricostruzione è lenta e i comuni coinvolti quasi raddoppiano per decreto nel 1981
-
I mancati controlli moltiplicano gli stanziamenti fino a 27 volte le convenzioni originarie
-
Fu istituita la commissione parlamentare d’inchiesta per far luce sui fondi erogati
-
Le case sono tornate in piedi, in un paese che non c’è più
-
Serve un viatico, forse, come incentivo per tornare a vivere a Lioni, Conza e in Irpinia
Un percorso in realtà già pensato quattro anni prima, dopo l’altro tragico evento tellurico che sconvolse il Friuli e l’Italia il 6 maggio del 1976. Ma è il terremoto dell’Irpinia, con un’area interessata di circa 30mila chilometri quadrati, un territorio esteso quanto l’intero Belgio, con due regioni e più coinvolte, Campania, Basilicata e parte della Puglia, (ma ha fatto tremare i palazzi fino a Roma Sud), otto province interessate: Avellino, Benevento, Caserta, Napoli, Salerno, Potenza, Matera, Foggia, con circa 3000 morti, 290mila sfollati, 9.000 feriti, con danni per miliardi di euro, con i suoi ritardi, con l’impreparazione di persone e istituzioni a affrontare un fenomeno del genere, con gli scandali e le ruberie, con la disperazione, con i lutti e il dolore, con la necessità e l’obbligo di cambiare vita per buona parte della popolazione coinvolta, con la sottovalutazione di quanto fosse accaduto e stesse accadendo, con le bare stese nelle strade, con il primo, vero tentativo dei media nazionali e internazionali di offrire a lettori e telespettatori un quadro in tempo reale di quello che stava succedendo, con una ricostruzione finalmente completata, è il terremoto dell’Irpinia, dicevamo, a segnare il passaggio all’età adulta per un’intera generazione e per le istituzioni italiane.
Come in ogni crisi, ogni catastrofe, ogni guerra, sono usciti allo scoperto gli eroi, soprattutto quelli meno attesi, e si sono palesati mistificatori e imbroglioni, a tutti i livelli.
Nulla più è stato come prima.
Quella sera del 23 novembre 1980 era una classica domenica sera in Irpinia. Gli sportivi erano tornati a casa felici di aver assistito alla vittoria dei biancoverdi di Luis Vinicio, nello stadio Partenio di Avellino, per 4 a 2 contro l’Ascoli. Aveva segnato anche Juary e aveva festeggiato con il suo famoso giro di samba attorno alla bandierina d’angolo. Quell’anno con la casacca biancoverde giocava gente come Stefano Tacconi e Beniamino Vignola che poi sarebbero passati alla Juventus. In difesa c’era Salvatore Di Somma, “libero” duro e insuperabile, terrore di tutti gli attaccanti avversari. Trentamila voci urlanti avevano salutato i Lupi con cori di gioia e erano rientrati di corsa a casa, per godersi di nuovo la vittoria nel servizio di 90° Minuto su Rai1 e poi tutti su Rai2 per rivedere i gol a Dribbling. Una marea di gente e macchine in movimento. Chissà quanti fra di loro sono rientrati nel conteggio delle vittime del terremoto.
Intervista a Salvatore di Somma
“Quel giorno che non potrò mai più dimenticare” Apri
Il ritmo lento della domenica sera irpina in quegli anni era un inno all’aggregazione. Nessuno poteva rimanere da solo. Ci si vedeva davanti al bar a chiacchierare e fumare. I più grandi nei circoli per la partitella a tresette e per i “soliti” discorsi sui giovani, sulla politica, sulle donne, sulle stagioni che non sono più le stesse di una volta e su quello strano caldo che faceva quella sera. A parlare insieme, a giocare insieme, anche a litigare, a confrontarsi, c’era il contadino e il preside, il commerciante e lo studente universitario, l’impiegato e il farmacista, tutti uguali nei luoghi di aggregazioni, per “legge” posti nei quali uno valeva uno. Le donne a messa per le celebrazioni serali della domenica o per le iniziative da oratorio, insieme ai bimbi più piccoli e qualche ragazzo.

Era una sera che invitava a stare per strada, a uscire di casa. Aria mite, fin troppo secondo quelli che riescono a scorgere segni premonitori anche nel cambio di direzione del vento. E c’era un cielo rosso fuoco, strano, innaturale, inquietante, anch’esso indimenticabile.
In casa, i bagliori di luce provenienti dalla tv accesa che trasmetteva il secondo tempo della partita tra Juventus e Inter. Nell’altra stanza i preparativi per la cena. Gli anziani al centro delle attenzioni di figli e nipoti. “Resta ancora un po’, te ne vai più tardi, e mangia un altro pezzettino di dolce”.
Era un mondo che stava per finire e nessuno lo sapeva, nessuno poteva esserne consapevole. Luoghi, persone e parole che sarebbero scomparsi per sempre. Senza lasciare traccia se non nei ricordi di chi li ha visti e vissuti.
Sono bastati 90 secondi di magnitudo 6.9 della scala Richter, decimo grado della scala Mercalli, per cambiare pagina. Un minuto e mezzo di “tagadà”. Uno strappo brutale con il preesistente. Una dissolvenza a nero che apre poi a uno scenario totalmente diverso pur restando nello stesso posto. Un minuto e mezzo di terrore.
Il boato era sordo e profondo. E poi lo stupore. La paura che ti taglia le gambe. Il movimento che ti trascina insieme al resto della casa, insieme al divano sul quale sei seduto. Buio. “Trema, trema, il terremoto” urla qualcuno. Poi imprecazioni, preghiere ai Santi e alla Madonna, rumore di assi che scricchiolano, di oggetti che cadono infrangendosi a terra, di tetti che cedono, di fondamenta che si aprono, di qualcosa che crolla in strada. C’è chi piange. Chi bestemmia. Rumori dal tetto, dai muri, dal pavimento. La polvere, l’odore di zolfo. Il senso di impotenza assoluta.
All’improvviso, così come è iniziato, tutto si ferma. 90 secondi possono essere infiniti. Polvere ovunque, quasi fosse nebbia. E puzza di zolfo, di gas. “Tutti fuori. Fuoriiiii!”. E giù di corsa sulle scale tutti insieme. Era la cosa più sbagliata da fare, ma chi lo sapeva? E comunque, è andata bene. Di corsa, salutati e messi al sicuro i nonni, via verso casa. Ma dove eravamo? Non si riconoscevano più i luoghi, le strade, i posti, le case. Solo cumuli di macerie e gente che chiamava nomi mai più trovati.
Niente luce, niente telefono, strade bloccate. Nessuna possibilità di chiedere e ricevere soccorsi. Caos totale, per lunghi minuti. Poi all’improvviso il silenzio che lasciava uscire le voci che chiedevano aiuto da sotto le macerie.
E le altre scosse. Laceranti. Cattive. Che obbligavano a smettere di scavare con le mani. Che facevano ricominciare i pianti e le grida. E che facevano zittire le voci che giungevano da sotto terra.
Per giorni le abbiamo sentite quelle voci. Diventavano sempre più flebili e poi sono sparite. Le mani nude e i pochi attrezzi non riuscivano a superare il groviglio di assi di legna e travi di ferro contorti, mescolati a pietre, mattoni di tufo, resti di mobili e pezzi di vita vissuta custoditi e curati gelosamente fino a poco prima.
Il dramma offriva il peggio di sé. E generava ricordi che non potranno mai sbiadire. Come la mamma abbracciata al suo bambino, nell’ultimo, inutile tentativo di protezione, trovata nel cortile di casa sua, travolta dal muro del luogo in cui era sempre vissuta amata e felice, mentre tentava di scappare via di là. Come gli occhi della gente che guardavano la prima camionetta dell’esercito, arrivata cinque giorni dopo la scossa omicida, inerpicarsi su un cumulo di detriti per arrivare al centro del paese e nessuno aveva il coraggio di dire a quegli alpini che stavano camminando là dove fino a pochi giorni prima c’era una chiesa. Come le lacrime degli uomini adulti, sempre tenute nascoste fino a quel momento.
Nei ricordi belli rientra la colonna di camion proveniente da Udine, a nemmeno 48 ore dal terremoto, che chiedeva informazioni per arrivare a Sant’Angelo dei Lombardi. E i volti dei tanti giovani che arrivarono con le Misericordie e con l’Esercito.
Ricordi belli sono anche le lunghe notti in cui nessuno dormiva. Con il fuoco acceso nel bel mezzo della piazza dove avevamo giocato partite memorabili di pallone finché non arrivava il vigile a sequestrarcelo. Protagonisti di quelle notti erano il silenzio e gli occhi, sgranati non appena giungeva la nuova scossa. Tutto attorno qualche tenda e le macchine, quelle salve, tappezzate con giornali e coperte per permettere a chi stava dentro, soprattutto anziani e bambini, di provare a dormire. In quei giorni era importante sentirsi una comunità.
“Andate ad aiutare i terremotati in Irpinia, parlerò io con Agnelli”, disse Pertini
L’operaio che chiamò il Quirinale Apri
Restano tra i ricordi belli anche le tante storie di solidarietà e la consapevolezza nata nei giovani di allora di non essere soli, ma di far parte di un insieme più grande. E restano i saluti degli amici, dei parenti, anche dei semplici conoscenti che ti rivedevano dopo tanto tempo e erano felici di sapere che anche tu eri un sopravvissuto.

Terremoto Irpinia
Il sisma di magnitudo 6,9 ± 0,04 Richter (X Mercalli) – profondità 10 Km – dura 1 minuto e mezzo
La terra trema
Il terremoto colpì alle 19:34:53 di domenica 23 novembre 1980 con una prima scossa della durata di circa 90 secondi, ipocentro di circa 10 km di profondità. Colpì un’area che si estendeva per 17.000 chilometri quadrati, dall’Irpinia al Vulture, posta a cavallo delle province di Avellino, Salerno e Potenza. I comuni più duramente colpiti (X grado della scala Mercalli) furono quelli di Castelnuovo di Conza, Conza della Campania, Laviano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Senerchia, Calabritto e Santomenna.
Gli effetti, tuttavia, si estesero a una zona molto più vasta, di circa 30.000 Km², grande quanto l’intero Belgio, e interessarono buona parte dell’area centro meridionale dell’Italia. Colpite le Regioni Campania, Basilicata e Puglia. Otto province coinvolte: Avellino, Benevento, Caserta, Napoli, Salerno, Matera, Potenza, Foggia. 687 comuni toccati: 542 in Campania, 131 in Basilicata e 14 in Puglia. Di questi, 37 “disastrati”, 314 “gravemente danneggiati” e 336 “danneggiati”. In totale, l’8,5% per cento degli 8.086 comuni italiani.
Le edizioni speciali dei Tg Rai
Quelle voci tra le macerie del terremoto
I danni
I resoconti dell’Ufficio del Commissario Straordinario hanno quantificato i danni al patrimonio edilizio. Dei 679 comuni che costituiscono le otto aree interessate globalmente dal sisma (Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Napoli, Potenza, Salerno e Foggia), 506 (il 74%) sono stati danneggiati.
Le tre province maggiormente sinistrate sono state quelle di Avellino (103 comuni), Salerno (66) e Potenza (45). Trentasei comuni della fascia epicentrale hanno avuto circa 20.000 alloggi distrutti o irrecuperabili. In 244 comuni (non epicentrali) delle province di Avellino, Benevento, Caserta, Matera, Foggia, Napoli, Potenza e Salerno, altri 50.000 alloggi hanno subito danni da gravissimi a medio-gravi. Ulteriori 30.000 alloggi lo sono stati in maniera lieve.

La comunicazione della tragedia
L’entità drammatica del sisma non venne valutata subito; i primi telegiornali parlarono di una “scossa di terremoto in Campania” dato che l’interruzione totale delle telecomunicazioni aveva impedito di lanciare l’allarme. Dalle edizioni speciali dei telegiornali giungeva la notizia del crollo di un palazzo a Napoli con tanti morti. Più tardi dalla sede regionale di Potenza si cominciarono a riportare le prime notizie di crolli e feriti anche lì. Cominciava a insinuarsi la paura che il danno fosse stato più serio, ma non riuscivano a giungere notizie perché le comunicazioni erano totalmente interrotte, l’energia elettrica saltata dovunque e nelle macerie erano finite anche stazioni dei carabinieri, posti di polizia, caserme dei vigili del fuoco. Soltanto a notte inoltrata si cominciò a immaginare che l’area interessata e le conseguenze sul territorio fossero di più vasta entità. Da un giro sull’area effettuato nella mattinata del 24 novembre con un elicottero, vennero rilevate le reali dimensioni del disastro. A bordo di quell’elicottero c’era anche Giuseppe Zamberletti.
La Rai, sul campo con decine di inviati, diede voce a chi aveva perso tutto
La Rai in mezzo alla gente Apri
Uno dopo l’altro si aggiungevano i nomi dei comuni colpiti; interi nuclei urbani risultavano cancellati, decine e decine di altri erano stati duramente danneggiati. Nei tre giorni successivi al sisma, il quotidiano Il Mattino di Napoli cercò di dare i giusti contorni alla catastrofe. Il 24 novembre il giornale titolò “Un minuto di terrore – I morti sono centinaia”, perché fino a quel momento si era a conoscenza soltanto del crollo di via Stadera a Napoli.
“Quando sorvolai quelle zone ebbi le stesse sensazioni del nostro inviato numero uno allora, Gaetano Giordano, che cominciò il pezzo dicendo: “grigio è il colore della morte”. E quella era la sensazione prevalente, il grigio, queste macerie uniformi, queste vite appiattite, cancellate…”
“Fate presto” Apri
Il 25 novembre, si passò a “I morti sono migliaia – 100.000 i senzatetto”, fino al titolo drammatico del 26 novembre “Cresce in maniera catastrofica il numero dei morti (sono 10.000?) e dei rimasti senza tetto (250.000?) – FATE PRESTO per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla”.
Pertini agli italiani: “Aiutate i vivi”
Il racconto del parroco di Balvano
Le polemiche sui soccorsi
“Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi” disse il presidente Sandro Pertini al TG2 Studio Aperto del 25 novembre 1980.
Il ritardo dei soccorsi fu gravissimo. Per cinque giorni la gente fu lasciata a sbrigarsela da sola, tranne rare eccezioni. I motivi furono molteplici: la difficoltà di accesso dei mezzi di soccorso nelle zone dell’entroterra, dovuta all’isolamento geografico delle aree colpite e al crollo di ponti e strade di accesso, il cattivo stato della maggior parte delle infrastrutture, tra cui quelle per l’energia elettrica e le radiotrasmissioni e l’assenza di un’organizzazione di protezione civile che consentisse azioni di soccorso in maniera tempestiva e coordinata.

Il primo a far presente questa grave mancanza fu proprio il presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Il 25 novembre Pertini si recò in elicottero sui luoghi della tragedia, dove lo aspettavano l’allora Ministro degli affari esteri, il potentino Emilio Colombo e il presidente del gruppo parlamentare della Dc, l’irpino Gerardo Bianco.
Di ritorno dall’Irpinia, in un discorso in televisione rivolto agli italiani, l’allora Capo dello Stato denunciò con forza il ritardo e le inadempienze dei soccorsi. Le dure parole del presidente della Repubblica causarono l’immediata rimozione del prefetto di Avellino, Attilio Lobefalo (ferito anche lui nel corso del terremoto), e le dimissioni (in seguito respinte) del Ministro dell’interno Virginio Rognoni.
Il discorso del Capo dello Stato ebbe come ulteriore effetto di mobilitare un gran numero di volontari che si riversarono nelle aree disastrate da ogni parte d’Italia e in molti anche dall’Europa. L’opera dei volontari fu in seguito pubblicamente riconosciuta anche con una cerimonia a loro dedicata in Campidoglio, a Roma.
Il racconto di Don Tarcisio Gambalonga e Rosetta D’Amelio
Storie di chi ha deciso di restare Apri
La ricostruzione
“La ricostruzione delle aree interessate da un terremoto non può essere veloce. Occorrono dai 10 ai 20 anni” dice Enzo Mosino, all’epoca dei fatti portavoce del Commissario Zamberletti. “Era una zona enorme da coprire e i problemi erano infiniti e di ogni ordine e grado. Il primo da risolvere era di non disperdere le comunità. La gente aveva bisogno di restare in un insediamento nei pressi del suo paese, della sua casa distrutta, per vedere e seguire la ricostruzione, per esserne parte attiva”.
A Laviano, paese in cui i morti per il sisma furono un quinto della popolazione (303 deceduti su circa 1500 abitanti), le prime case in legno (una ventina) con servizi compresi, arrivarono nel febbraio 1981. Il 25 aprile 1981, a 153 giorni dal terremoto, gli alloggi in legno tipo chalet realizzati dal gruppo Rubner, che si insediò nel 1990 in Irpinia con uno stabilimento di produzione a Calitri, diventarono 150, per un totale di 450 persone ricoverate.
La ricostruzione presenta, però, anche tante zone d’ombra. A partire dall’ampliamento del numero dei comuni colpiti: 339 paesi in un primo momento, che diventarono 643 in seguito a un decreto dell’allora presidente del Consiglio Arnaldo Forlani nel maggio 1981, fino a raggiungere la cifra finale di 687, ossia quasi l’8,4% del totale dei comuni italiani.
Più di settanta centri furono integralmente distrutti o seriamente danneggiati e oltre duecento ebbero consistenti danni al patrimonio edilizio. Centinaia di opifici produttivi e artigianali furono cancellati con perdita di migliaia di posti di lavoro e danni patrimoniali per decine di migliaia di miliardi di lire.
Il numero dei comuni colpiti, però, fu alterato per manovre politiche. Alle aree colpite, infatti, venivano destinati importanti contributi pubblici ed era interesse dei politici locali far sì che i territori amministrati venissero inclusi in quest’area.
I contributi per il rilancio economico
Sul modello del terremoto del Friuli, la ricostruzione anche in Irpinia venne incentrata sul rilancio industriale. Nonostante il territorio non presentasse caratteristiche industriali. I finanziamenti arrivarono talmente concentrati da non riuscire ad essere spesi. In sette anni, ventisei banche cooperative aprirono gli sportelli nella zona terremotata (nove nella sola provincia di Avellino), arrivando a fare prestiti alle imprese del Nord Italia.
Per rilanciare venti zone industriali tra Campania e Basilicata vennero stanziati 7.762 miliardi di lire (circa 8 miliardi di euro del 2010). Il costo finale fu dodici volte superiore al previsto in provincia di Avellino e diciassette volte in provincia di Salerno. Secondo la relazione finale della Corte dei Conti, i costi per le infrastrutture crebbero fino a punte “di circa 27 volte rispetto a quelli previsti nelle convenzioni originarie”. Il 48,5% delle concessioni industriali (146 casi) venne revocato.
La Corte dei Conti accusa “la superficialità degli accertamenti e l’assenza di idonee verifiche”, approvate senza “adeguatamente ponderare situazioni imprenditoriali già fragili e già originariamente minate per scarsa professionalità o nelle quali la sopravvalutazione dell’investimento, in relazione alle capacità imprenditoriali, ha portato al fallimento dell’iniziativa”. Nel 2000, 76 aziende risultavano già fallite, ma solo una piccola parte dei contributi (il 21% nella provincia di Salerno) era stato recuperato.
Il dopo-sisma
La prima stima dei danni del terremoto, che venne fatta nel 1981 dall’ufficio dello Stato (organo speciale atto a coordinare le operazioni di calcolo dei danni per conto della presidenza del Consiglio), parlava di circa 8.000 miliardi di lire. La cifra è cresciuta col passare degli anni, fino a superare quota 60.000 miliardi di lire nel 2000, e 32 miliardi di euro nel 2008. Attualizzandola al 2010, secondo Sergio Rizzo la stima supererebbe i 66 miliardi di euro.
I giornalisti che hanno raccontato il terremoto
“Sulle macerie dell’Irpinia è nata la Protezione Civile” Apri
Commissione parlamentare d’inchiesta
La legge 7 aprile 1989, n. 128, istituì la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’attuazione degli interventi per la ricostruzione e lo sviluppo dei territori colpiti dai terremoti del novembre 1980 e del febbraio 1981 della Campania e della Basilicata, alla cui Presidenza venne eletto Oscar Luigi Scalfaro.
Era un organismo bicamerale con gli stessi poteri della magistratura, costituito da venti deputati e altrettanti senatori con il compito di accertare quanto realmente lo Stato avesse speso, sino a quel momento, per la ricostruzione delle aree terremotate.
Nella relazione conclusiva presentata in Parlamento il 5 febbraio 1991, la somma totale dei fondi stanziati dal Governo italiano raggiunse la cifra di 50.620 miliardi di lire, così suddivisi: 4.684 per affrontare i giorni dell’emergenza; 18.000 per la ricostruzione dell’edilizia privata e pubblica; 2.043 per gli interventi di competenza regionale; 8.000 per la ricostruzione degli stabilimenti produttivi e per lo sviluppo industriale; 15.000 per il programma abitativo del comune di Napoli, e le relative infrastrutture; 2.500 per le attività delle amministrazioni dello Stato; 393 residui passivi.
Oggi. La ricerca di un dibattito sul futuro
“Ora hanno un respiro rassegnato questi paesi. Non sono più luoghi del sangue. Non ci sono più angoli e volti segreti. E non c’è più una morte che sia solenne. Sembrano morire come foglie, come semplici conseguenze di un affanno” scrive il poeta Franco Arminio.
“Il terremoto ha accentuato una mutazione che era già in corso, una sorta di rottamazione del mondo contadino verso una modalità incivile – continua Armino -. Anno per anno ci siamo prima illusi che questa ricostruzione potesse messe fine all’annosa ferita dell’emigrazione. Poi poco alla volta ci siamo resi conto che le persone hanno avuto la casa, ma hanno perso il paese. L’errore principale è stato non capire che i paesi andavano verso lo spopolamento. I decisori politici di allora, che in qualche caso sono gli stessi di adesso, non hanno capito che i paesi non potevano avere lo sviluppo demografico immaginato. Noi oggi abbiamo un grande patrimonio edilizio in Irpinia, abbiamo comunque dei paesi bellissimi, il paesaggio di questo pezzo di appennino e i paesi sono pronti ad accogliere i turisti che decideranno di visitarli. Chi verrà negli anni a venire troverà luoghi belli e accoglienti, Forse non è servita negli anni scorsi la ricostruzione, ma servirà negli anni a venire”.
La poesia di Franco Arminio
“Ora hanno un respiro rassegnato questi paesi” Apri
Facciamo rete
L’idea di affrontare il futuro in ordine sparso non regge. È perdente. Mettere insieme menti, braccia, risorse e lavoro può essere un buon viatico per puntare a richiamare l’attenzione sulle bellezze e le possibilità delle aree interne. La questione adesso è rispondere alla domanda: “Che cosa facciamo di questi luoghi?”. C’è una carenza di dibattito. La celebrazione del quarantennale potrebbe essere un’occasione mancata se non venisse affrontato un ragionamento sul futuro di questi luoghi. Che cosa può essere Lioni, Conza, l’Irpinia, la Basilicata tra dieci, vent’anni? Bisogna continuare a celebrare il terremoto, ma guardando avanti. Come si è guardato avanti nella realizzazione di abitazioni, uffici pubblici e infrastrutture, tenendo presente delle possibilità reali che si possano ripetere nuovi eventi sismici, così bisogna guardare avanti tenendo presenti quali siano peculiarità, ricchezze, prospettive, elementi di attrazione del territorio e contemporaneamente esigenze, richieste e necessità della popolazione, soprattutto quella giovane, che in questo territorio ha deciso di restare e di scommettere su di sé.
“Fate presto”

Il 26 novembre 1980 il quotidiano “Il Mattino” di Napoli titolava in prima pagina “Fate presto”: erano passati già tre giorni dal terremoto che aveva distrutto l’Irpinia ma il Paese faceva ancora fatica a rendersi conto delle dimensioni del disastro. Ecco allora quello strillo a caratteri cubitali per chiedere soccorsi, urgenti, immediati alle popolazioni sepolte dalle macerie del terribile sisma. Quella prima pagina verrà immortalata dal padre della Pop Art in un’opera simbolo della tragedia.
Pertini in Irpinia

A 48 ore dalla tragedia la visita nelle zone terremotate e il ritorno a Roma. Il presidente Sandro Pertini manifesta disappunto dando voce alla disperazione dei sepolti vivi e dei superstiti, impossibilitati a salvare i propri congiunti senza gli attrezzi necessari. Il presidente della Repubblica nella sua “requisitoria” cita le leggi approvate nel 1970 dal Parlamento sulle calamità naturali e sgomento dichiara di aver scoperto che non sono stati attuati i regolamenti di esecuzione.