di Antonio Emilio Caggiano
Il racconto del terremoto dell’80, e soprattutto di tutto quello che è successo da quel momento in poi, è passato attraverso le penne di tanti giornalisti che hanno vissuto l’emergenza in prima persona. Cronisti che sono riusciti a farsi interpreti delle esigenze, del dolore, delle speranze e delle paure di un territorio martoriato. Per Franco Genzale, autore di oltre 4000 articoli sul terremoto, anche un importante passaggio istituzionale con due anni trascorsi come capo Ufficio Stampa della struttura speciale del ministro della Protezione Civile, Giuseppe Zamberletti.
Franco Genzale, qual è la domanda che è rimasta senza risposta?
Come ha fatto la comunità irpina a sopravvivere psicologicamente a una tragedia del genere?
La prima cosa che mi ha terrorizzato è stato il concetto della sopravvivenza rispetto a quelle macerie. Non tanto per la ricostruzione in sé, perché bene o male di ricostruzioni in Italia ne abbiamo fatto tante, anche nei dopoguerra, quanto per la ricostruzione del tessuto sociale. Era questa la preoccupazione di Zamberletti: ricostruire il tessuto sociale sarà molto più difficile, perché di fronte a tanti morti, di fronte a una tragedia di quelle dimensioni, sarebbe stata una missione quasi impossibile. Specie in una zona priva di memoria industriale, sottosviluppata dal punto di vista economico, anche se con grandi genialità politiche, lì sarebbe stato molto più complicato, molto più complesso ricostruire il tessuto sociale che c’era, che poi era un tessuto soprattutto di cultura contadina, almeno nell’Alta Irpinia, che poi è stata la zona più colpita.
Nei due anni trascorsi a strettissimo contatto con il ministro Zamberletti, ha avuto un punto di vista privilegiato sulla nascita della moderna protezione civile.
La nascita della protezione civile si deve alla genialità di Zamberletti, alla sua insistenza e soprattutto, per il livello istituzionale che interpretò in quel momento, al presidente della Repubblica Sandro Pertini. Il presidente della Repubblica dopo pochi giorni era di persona sui luoghi della tragedia e fu proprio grazie a lui che da un giorno all’altro cominciarono a muoversi gli aiuti. Zamberletti in quella circostanza disse a Pertini che era assolutamente necessario creare il dipartimento della protezione civile. Lui era forte dell’esperienza friulana. Nel 76 era stato il commissario per gli interventi nel Friuli, aveva maturato una grande esperienza, ma credo che quell’esperienza fosse innata in lui. Era un geometra davvero geniale, di intelligenza tecnica superiore e di una intuizione straordinaria. Lui insieme al presidente Pertini, che prese a cuore subito la proposta di Zamberletti, avviarono di fatto l’iter amministrativo della protezione civile proprio col terremoto dell’Irpinia. Un iter che si concluse con la creazione del dipartimento nel 1982 e da allora credo che l’Italia intera abbia maturato pian piano questa coscienza della protezione civile. Credo che anche oggi, in occasione del Covid, quella protezione civile ideata da Zamberletti, stia dando un apporto molto importante, al di là dell’apporto che quotidianamente dà in altri ambiti, anche con le organizzazioni territoriali che nel tempo sono molto maturate. Oggi “grazie” alla tragedia irpina abbiamo una consapevolezza dei disastri e quindi siamo decisamente più preparati.

I suoi articoli raccontano soprattutto la ricostruzione, ma sono pieni anche di storie di persone. Storie di vita e di dolore. Storie di speranze e di disillusioni. C’è stata una storia che non avrebbe mai voluto raccontare?
È la storia delle vittime. Ci sono state persone che sono rimaste sotto le macerie anche per due, tre settimane. Ricordo lo strazio dei familiari e dei sopravvissuti rispetto ai tanti lutti. Famiglie intere distrutte magari con un solo sopravvissuto. Quelle storie che abbiamo raccontato noi del Mattino, con i tanti colleghi che sono stati sui luoghi della tragedia fin dalle prime ore. Abbiamo raccontato quelle macerie, quei lutti. Come Sant’Angelo dei Lombardi, una comunità di 2500-3000 abitanti all’epoca che conta ben 430 vittime. Ecco non avrei voluto raccontare nessuna di quelle storie.
Ricordare a che serve?
Serve a tenere memoria storica e culturale delle tragedie. Non può che arricchirci nella conoscenza e nel sapere. Può servire ad evitare di ripetere certi errori. Questo riguarda non soltanto la classe dirigente politico amministrativa, ma riguarda tutti i cittadini. Perché nel caso dei terremoti, la collaborazione che possono dare i cittadini è molto importante. È un po’ come oggi con la pandemia, se prendiamo coscienza che la mascherina è importante, dare quel contributo di serietà può servire tantissimo a salvare le nostre vite e le vite degli altri. E questo accade anche quando c’è un disastro come il terremoto: sapere come muoversi, specialmente nelle scuole, sapere come soccorrere subito le persone che hanno bisogno, sapere come organizzare il territorio. Questa è stata la grandezza di Zamberletti: è riuscito a organizzare un territorio vastissimo in pochi giorni. In poche settimane mise su una organizzazione davvero straordinaria.
40 anni da quel 23 novembre 1980. Gianni Festa, decano dei giornalisti irpini, è stato uno degli inviati di punta del Mattino di Napoli in quei giorni. Un periodo in cui ha scritto migliaia di articoli e ha raccontato l’Irpinia, i movimenti, le trasformazioni. Quali sono le cose che sono rimaste impresse con maggior forza?
Quella notte mi avviai nel “cratere”, come Francesco Compagna definì quella zona distrutta, e le scene di morte che vidi mi fecero rabbrividire. Furono scene terribili. Ero abituato a stare in momenti difficili, venivo dal Medioriente, avevo fatto esperienze diverse e pensai che la guerra fosse poca cosa rispetto a quello che vedevo lì con i miei occhi.
Si deve proprio a Gianni Festa l’invenzione e l’utilizzo, poi diventato generalizzato, del termine “malanotte” per indicare una notte maledetta…
Stavamo in redazione al Mattino quando venne a tremare e nel ripetersi delle scosse che si susseguivano, ci riparammo in redazione io e un collega sotto il tavolo delle riunioni e rivolgendomi al collega dissi: “Che malanotte”. Poi ho usato questo termine nel corso degli articoli nel tempo che mi è passato davanti ed è rimasto un riferimento letterario di questa parola.
40 anni sono passati invano?
Sì e no. Invano no perché noi venivamo dalla civiltà contadina. Le nostre località, i nostri paesi, i nostri borghi erano belli, ma senza servizi sociali. In 40 anni sono state realizzate tante cose positive, qualcuno ha detto che ci hanno rubato il terremoto riferendosi alla vicenda di Napoli e dei ventimila alloggi. Io dico che le parti positive sono tante, ma devono essere raccordate con il tempo che è trascorso. 40 anni sono una vita e forse chi aveva il gabinetto fuori dal balcone oggi si trova una casa molto più elegante. L’altra parte, quella dell’invano sì, perché è stato uno spartiacque di mentalità. L’industria. L’industria in montagna. Si sperava in 3000 posti. Diceva Manlio Rossi Doria: “La gente deve restare qui” ed era contro i nuclei industriali perché da professore di agricoltura conosceva bene le abitudini e la civiltà contadina. Voleva poco, bastava dare il necessario. Tuttavia lo sviluppo industriale si è fermato. Non c’è stata l’occupazione dei 3000 posti. Le aziende spesso sono diventate deposito di rifiuti tossici interrati sotto le fabbriche. E poi il fenomeno incredibile delle aziende del Nord che portano attrezzature obsolete per avere il contributo e poi mettono i catenacci vicino ai cancelli.
A livello di protezione civile che cosa ci ha insegnato questo periodo?
Quello che disse Zamberletti: “in Irpinia, un territorio grande quanto il Belgio, è nata la protezione civile”. Sulle macerie dell’Irpinia si è presa coscienza che lo Stato era fragile rispetto alle sciagure e qualcosa bisognava inventare. E lui, buonanima, la inventò.