di Antonio Emilio Caggiano
Uno dei capitoli più belli dell’immediato dopoterremoto dell’Irpinia è stato scoprire di non essere soli, anzi di avere accanto tanta gente, tanti volontari provenienti dall’Italia intera e soprattutto dal Nord della penisola. Gente che ha messo da parte lavoro, famiglie e interessi personali per portare aiuto materiale e sostegno umano. Uno scambio di culture e di dialetti, di professioni e di umanità che ha arricchito tutti e ha reso più unito e simile un popolo.
Giuliano Santelli è uno di quegli operai della Fiat Autobianchi di Desio che, il 23 novembre del 1980, sentito cosa era successo in Irpinia e Basilicata, ha deciso, insieme a tantissimi suoi colleghi di fare qualcosa. Com’è andata?
Fin dalla mattina al primo turno del 24 novembre, molti lavoratori lucani e irpini che lavoravano con noi in Fiat, erano molto preoccupati. Volevano ovviamente tornare a casa per vedere cos’era accaduto a parenti, amici. La Fiat assunse un atteggiamento molto rigido. Noi del consiglio di fabbrica autorizzammo gli operai a partire e nel frattempo iniziammo tutti i contatti che ci permettevano di garantire comunque quelli che erano partiti. Telefonammo a tutti finché telefonammo anche al Quirinale, sembra quasi una favola, rispose il centralino, chiedemmo della segreteria del presidente, parlammo con Maccanico che mi passò… “Sono il presidente”, io rimasi interdetto e ci disse: “Io parlerò con Agnelli, voi partite”.
E siete partiti…
Sì, eravamo in 54 con un pullman, insieme ai medici, e siamo arrivati prima a Pescopagano dove abbiamo trovato una situazione drammatica. Non c’era nessuno, noi arrivammo il 27, e con Cgil, Cisl e Uil che organizzavano tutto il soccorso, allestimmo un campo con 350 roulottes. Ricordo una situazione veramente drammatica anche a Conza della Campania dove vedemmo 300 bare aperte. E così iniziammo un percorso di squadre che si davano il cambio senza sosta. Io sono rimasto qui due anni e ho organizzato per la Cgil della Basilicata tutta l’area del cratere: Balvano, Muro Lucano, Castelgrande. Ricordo perfettamente la gravità della situazione che c’era. E conoscemmo molto bene Zamberletti. È lì forse che è partito il primo step per creare la protezione civile nel Paese. Lì è partita una straordinaria storia che è quella della protezione civile italiana. C’è stata una contaminazione culturale, sociale e politica da noi che venivamo dal Nord con la gente del Sud. È un aspetto che sarà difficile da dimenticare anche in termini di grande esperienza di interscambio culturale. Così conoscemmo Calitri, Conza, conoscemmo dei posti che forse non avremmo mai conosciuto né visto. I ricordi sono molto belli anche da questo punto di vista, nonostante la tragedia, perché le persone con noi sono rimaste legate. Io torno giù ogni tanto, vedo gli amici di Pescopagano, di Muro Lucano, gente straordinaria. È un’esperienza formativa che credo abbia lasciato un segno in me indelebile. Qui poi è nata mia figlia quindi per me è ancora più grande questo rapporto con questi luoghi.
Com’è andata la telefonata con Pertini?
Mi ha detto testualmente: “Voi partite, non vi preoccupate, parlo io con Agnelli”. Me lo disse al telefono, ma con una familiarità disarmante. Poi ho rivisto il presidente quando è venuto a Potenza, mesi dopo. Ci presentammo con altri delegati sindacali che stavano qui. Io glielo dissi: “Presidente, lei mi ha risposto al telefono”. Ovviamente non avevo pretese che si ricordasse, chissà a quante telefonate aveva risposto. Era un uomo, uno statista, una persona che non solo ha lasciato un segno nel Paese, ma nel cuore degli Italiani perché è stato il vero presidente degli italiani, alla mano, grande persona. Me lo ricordo quando girava si fermava tra la gente, sentiva i racconti delle persone, indignato moltissimo. E ho un altro ricordo, molto personale: io ho una bella pipa che mi regalò proprio Pertini e me la tengo custodita davvero come un ricordo anche questo indelebile.
Tornando ai giorni dell’emergenza. Appena arrivati, quali furono i primi interventi?
Muro Lucano era in una situazione drammatica. Passammo con i medici e facemmo quello che potevamo fare. A Castelgrande la strada era interrotta completamente. A Pescopagano la situazione era totalmente disorganizzata, c’era solo un ospedale da campo dell’esercito, costruito in poche ore. Il vero problema era il ricovero delle persone. Arrivarono 300 roulotte dalla Flm Lombardia. Cominciammo a organizzare gli impianti. Non c’erano i bagni fino a Natale. Non c’erano bagni né docce, non c’era nulla, c’erano dei bagni chimici che si potevano chiamare così forse allora. E poi piano piano, grazie alla presenza continua di volontari, alle risorse che sono arrivate, alle professionalità che sono via via venute qui da noi, siamo riusciti a costruire un campo. Con i mesi successivi, c’è stato qualche movimento più interessante fino alla costruzione dei primi prefabbricati, a Piano Marzano a Conza, anche lì un po’ di ritardi sicuramente, con Zamberletti che era un commissario straordinario incredibile, c’era una presenza sistematica di almeno una due volte la settimana. Girava i cantieri per vedere cosa succedeva. Anche questo era un segno molto importante. Poi tutto il resto è cronaca. Non tutto è andato bene, come non è andato bene in altre parti. E forse l’esperienza di altri colleghi che sono venuti qui con me dal Friuli ci ha aiutato a superare delle difficoltà legate anche a regolamenti, procedure, burocrazia, che impediva di dare slancio a un aspetto che era quello del reinsediamento iniziale.
40 anni dopo quali sono le sensazioni?
Ho trovato un tessuto che mi ha colpito soprattutto dal punto di vista culturale e sentimentale. È cresciuta una generazione che non è andata via. All’inizio erano andati via quasi tutti. Ho ritrovato persone che sono tornate, hanno costruito delle attività. Soprattutto c’è un processo interculturale tra nord e sud che ha funzionato. Penso al festival di Calitri, a quello di Pescopagano, a Caivano. Ci sono delle cose che sono cresciute grazie al recupero delle tradizioni locali che sono fondamentali e non si sono perse come avvenuto in altre situazioni. E queste tradizioni culturali, come la musica popolare, sono diventati elementi di sviluppo del territorio, così come l’agricoltura dove sono stati ripresi vitigni antichi e grani antichi. Qui ci sono esperienze davvero significative. È per me una soddisfazione personale pensare che non è successo come sempre. Io sono umbro e vedo che il terremoto in Umbria alcune zone le ha spopolate, qui vedo che c’è una ripresa, timida, ma si coglie dalle cose che dicono e fanno i ragazzi. E se si muovono i più giovani, vuol dire che la strada è quella giusta.