La memoria di Claudia, l’Archivio di Pieve e quel viaggio verso il Montenegro

Senza l’Archivio dei diari non avrei forse mai conosciuto la vicenda di Goli Otok. E’ stato a Pieve Santo Stefano, infatti, che per la prima volta mi sono imbattuto nella tragedia degli internati dell’Isola Calva: è stato grazie a Claudia Sonia Colussi Corte che è venuta alla luce la storia di suo padre Cherubino, raccontata in un diario dattiloscritto dal titolo “L’isola nuda” scritto nel 1998 da questa donna nata negli anni ‘40 in Italia ma trasferitasi subito con la famiglia a Lussinpiccolo, in Jugoslavia.

Dove la posso trovare?” “Ora vive a Belgrado”.

Fu così che organizzammo l’incontro, a Molunat, nell’estremo sud della Croazia, al confine con il Montenegro.  Io venivo da Trieste, in macchina, e all’epoca non c’era ancora l’autostrada: per raggiungere Dubrovnik e poi la frontiera bisognava percorrere la infinita e bellissima Jadranska Magistrala.  Arrivato al confine mi dovetti fermare: l’assicurazione della mia auto italiana non era valida in Montenegro. Fu così che lei – che era arrivata in autobus da Belgrado – dovette attraversare il confine a piedi. Una scena da film sulla Guerra fredda. Così come d’altri tempi fu l’intervista, girata in un bar della costa, dove il giornalista italiano e la donna con accento serbo destavano curiosità e una malcelata ostilità. La guerra, a Dubrovnik, era un ricordo ancora fresco.

Parlammo a lungo, prima che mi decidessi ad aprire la grande borsa che conteneva la telecamera: fu allora che mi accorsi di aver dimenticato il cavalletto. Se non fossi stato a centinaia di chilometri di distanza dalla redazione avrei cercato di recuperarlo o di acquistarne uno.

Ma in quella situazione non avevo scelta: rinunciare all’intervista o sacrificare il braccio sinistro. Scelsi la seconda opzione, ovviamente, e così per i 57 minuti dell’intervista dovetti provare a tenere ferma una telecamera che – vi assicuro – non era leggera come quelle che si usano oggi.  Mi scuserete, quindi, se la stabilità del video non è proprio come avrei auspicato ma spero che l’intensità del racconto di Claudia Colussi faccia passare in secondo piano i difetti formali.

Negli occhi della donna seduta di fronte a me vedevo passare la sguardo autentico di una bambina di 7 anni che aveva guardato il padre mentre veniva e sottratto alla sua famiglia, inspiegabilmente. Avvertivo nelle sue parole e nei suoi gesti una verità ancestrale e commovente che non ho mai più percepito nel corso di una singola intervista.

Nel reportage su Goli Otok che è andato in onda nel 2002 su Rainews24 sono riuscito a inserire poco più di un minuto del racconto di Claudia Colussi Corte.

Questa è le prima volta che viene pubblicata l’intervista integrale.

Intervista a Claudia Colussi Corte

di Angelo Saso, Rainews24

Registrata a Molunat (Croazia) il 9 novembre 2002.

Signora Colussi, lei ha scritto una memoria sulla esperienza di suo padre sull’isola-gulag di Goli Otok e su come questa esperienza fu vissuta dalla sua famiglia. Quando lo ha deciso e perché?
Era tantissimo tempo che volevo farlo. Mio padre voleva che si sapesse la sua storia ma ha avuto paura. Gli ho promesso che l’avrei fatto io, quando ho trovato il tempo mi sono messa a scriverla. Era un dovere morale verso mio padre, nient’altro.

Suo padre, Cherubino Colussi, fu arrestato nel paese dove allora abitavate, Lussinpiccolo (Croazia), nel febbraio 1951. La polizia politica jugoslava, l’UDBa, lo prelevò nel cantiere navale dove era impiegato come tecnico specializzato. Mi racconta come andarono le cose quel giorno?
Mi ricordo che mia madre è scesa in piazza a vedere che cosa era successo, perché mio padre non era ancora tornato a casa dal lavoro. Aveva sentito dire che c’erano stati arresti, tra i quali anche quello di mio padre. Mia mamma era contraria al fatto che mio padre facesse politica, aveva come un presentimento.
Quel giorno mia madre tornò a casa e mi disse dell’arresto. Anche se io non avevo capito che cosa voleva dire arresto avevo capito che la cosa era più tragica di quanto voleva farmi credere mia madre.

Dopo qualche giorno sono venuti a perquisire la casa. E’ stata una scena come quelle che si vedono nei film: hanno messo tutto a soqquadro, hanno rovesciato i cassetti. Io e mia madre non riuscivamo a capire.

Lei capiva il croato?
No, assolutamente. Neanche una parola. Neanche mia madre capiva. Non capivamo cosa volevano, la mamma ha collegato che la perquisizione aveva a che fare con l’arresto di mio padre ma non sapevamo che cosa volevano. Non hanno trovato niente, papà non svolgeva nessuna attività.

Hanno trovato libri “cominformisti”?
Niente. Hanno calpestato tutto quello che hanno trovato, una scena da film.

Sua madre è stata maltrattata da queste persone?
E’ stata spinta ed è anche caduta. Non conoscendo la lingua croata aveva detto “magari sapessi il croato”. Loro hanno capito male: “magarac” in croato vuol dire “asino”, loro l’hanno preso per un insulto.

Siamo nel febbraio 1951, da allora comincia un periodo molto difficile…
Sì, siamo stati tre mesi senza avere i mezzi per vivere. Mamma lavorava a maglia, papà era in prigione. Mamma era preoccupata, credeva di poter avere aiuto dal cantiere dove lavorava prima papà. E’ andata a chiedere aiuto ma naturalmente non ci hanno dato niente. Mia madre faceva lavoretti a maglia, golfini, cose così: non era un lavoro, quello che guadagnava non era sufficiente per poter vivere.

In generale, come si è comportata con voi la comunità del vostro paese, Lussinpiccolo? Che cosa hanno fatto i vostri vicini, i vostri amici?
Nessuno ci rivolgeva più la parola, tutti quanti erano presi dalla paura. Non avevano il coraggio di venire da noi e darci aiuto. Dall’arresto di mio padre noi siamo stati praticamente isolate, anche passando per la strada voltavano la testa, nessuno ci salutava. Bastava pochissimo per venire arrestati ed essere dichiarati “nemici del popolo”.

Lei all’epoca aveva sette anni. Come si spiegava questi avvenimenti?
Io non capivo molto, mi ricordo soltanto che soffrivo. Neanche mia madre sapeva spiegarmi bene come cose simili potessero accadere a gente come noi, che non aveva fatto del male a nessuno.

Claudia Colussi Corte

Claudia Colussi Corte con la sua famiglia

Cherubino Colussi è nato a Beli, sull’Isola adriatica di Cherso (Cres, nell’attuale Croazia), il primo ottobre 1909. Con i 5 fratelli rimane orfano nel 1925 quando – a 16 anni – si imbarca come marinaio e naviga per molti anni, fino al ritorno in Italia nel 1941. Negli anni di lavoro all’estero vive a lungo anche negli Stati Uniti, dove conosce il Capitale di Karl Marx e ne resta affascinato. Tra il 1943 e il 1944 lavora in Italia nei cantieri navali di Monfalcone. Successivamente trova un impiego nei cantieri del suo paese natale, Lussinpiccolo, sull’isola di Lussino (Alto Adriatico).
Nell’aprile 1946 la decisione della sua vita: Colussi va a prendere la moglie e la figlia – che fino a qual momento avevano vissuto a Isola Vicentina (Vicenza) – e le porta con lui a Lussinpiccolo, ormai territorio della Federazione delle Repubbliche socialiste di Jugoslavia. La sua scelta – dettata dal desiderio di “costruire il socialismo” in una terra dove il socialismo aveva trionfato – sarebbe stata gravida di conseguenze.
Colussi – che nel frattempo aveva intrapreso una breve militanza sindacale e politica nei cantieri dove lavorava – all’indomani della rottura tra l’Unione Sovietica e la Jugoslavia (Risoluzione dell’Ufficio Informazioni – Cominform – del 28 giugno 1948) fu individuato come “attivista del cominform” e in quanto idealmente iscritto al partito filosovietico fu denunciato come “nemico del popolo”.
Nel febbraio 1951 Colussi fu prelevato in cantiere da agenti della polizia politica Jugoslava, l’UDBa.
Per tre mesi fu detenuto nel carcere di Lussinpiccolo, dove fu isolato in “una cella umida e scura, con le mani costantemente legate dietro la schiena”, come raccontò in seguito alla figlia Claudia, la quale ha consegnato le memorie sue e del padre a un dattiloscritto conservato nell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano (Arezzo).
Nell’agosto 1951 la famiglia Colussi – composta dalla moglie e dalla figlia di Cherubino – ricevette la notizia che il Tribunale Militare di Split (Spalato) lo aveva condannato a quattro anni di detenzione, l’ultimo dei quali con la condizionale, sulla base di una confessione di 42 pagine falsificata dagli inquirenti.
Attraverso il campo bosniaco di Bilece Colussi fu tradotto con altri detenuti nel porto di Bakar (Buccari) da dove, nel novembre 1951, fu imbarcato sulla motonave Punat e condotto nel penitenziario dell’Isola Calva, in croato “Goli Otok”.
Su quell’isola Colussi rimase per tre anni, nei quali visse e vide cose che lo avrebbero segnato per sempre. Morì di infarto nel suo letto nella casa di Lussinpiccolo. Era il 13 novembre 1970, aveva 61 anni.

Claudia Colussi Corte

Claudia Colussi Corte

 

Lei provava vergogna?
Io sì, mi vergognavo. Specialmente dopo la sentenza, dopo aver saputo della condanna a 4 anni mi vergognavo un po’. Anche guardando gli altri bambini spensierati mi sembrava che tutti quanti sapessero. Invece i bambini – che pure a volte sono crudeli – di fronte a me non hanno mai detto nulla.

Provava vergogna per qualcosa che non capiva…
Sì, era forse una cosa più grande di me. Sapevo mio padre in prigione e sapevo che chi lo è un criminale. La politica per me non significava niente. I compagni di classe non dicevano niente, ero io che avevo paura di mettermi in contatto con loro. All’epoca mi chiusi in me stessa. Stavo sempre appartata, non comunicavo con nessuno. La mamma non aveva più il coraggio di uscire di casa. Io all’ora della ricreazione correvo sempre a casa a vedere come stava, avevo sempre paura che avrebbe reagito come aveva fatto nel momento in cui aveva saputo della sentenza di condanna di mio padre.

Come aveva reagito?
Aveva pianto ma era un pianto che mi aveva fatto molta paura. In quel momento mi ero sentita molto sola, la mamma mi era sembrata tanto lontana, tanto strana.
Anche dopo c’era sempre gente curiosa che guardava di nascosto. Quando capitava qualcuno alla porta lei si metteva a piangere e quindi io avevo il desiderio di rimanere sola. Da sole eravamo più tranquille.

A otto anni lei ha sentito il dovere di proteggere sua madre?
Si’, in quel momento ero io che dovevo proteggerla, perché io uscivo di casa, mia mamma non usciva, era in uno stato di prostrazione, forse anche depressione. In quel momento sono diventa grande, adulta. Da allora sono restata sempre adulta, mi è mancata la spensieratezza che avrei dovuto avere e tutto il resto, io sono stata proprio sempre adulta.

Mi racconta del primo interrogatorio che suo padre subì nel carcere di Lussinpiccolo, nel 1951?
Mia madre mi portava sempre appresso, eravamo noi due sole e non aveva neanche dove lasciarmi. Mi disse: “Guarda, andiamo lì alla Casa Rosa (Sede della Polizia di Lussinpiccolo, ndr) per l’interrogatorio ma tu se vedi che non arrivo mettiti a piangere”.
Io sono rimasta fuori, ho aspettato la mamma e nel frattempo ho sentito delle grida, strazianti proprio, tanto che non sembravano neppure umane. Sono corsa a vedere da dove venivano, perché non ero sicura: erano passate alcune ore da quando la mamma era entrata nella stanza degli interrogatori ed ero talmente stanca che non ero sicura più di niente.
Erano proprio grida umane, sono andata giù scendendo attraverso le scale e mi ha preso una grande paura. Allora sono tornata a sedermi sulla panca e intanto poi mi sono messa a piangere con la speranza che qualcuno avrebbe aperto la porta dove si trovava la mamma per questo interrogatorio. E invece non è uscito nessuno.
Poi dopo un’altra ora la mamma è uscita: naturalmente non poteva dire granché, non sapeva la lingua. C’era l’interprete ma mia madre non sapeva niente davvero, non c’era niente di sovversivo in mio padre.
Siamo tornate a casa distrutte, lei ed io. Durante la notte ha avuto la febbre alta.

Di chi erano quelle urla che aveva sentito provenire dai sotterranei del carcere?
Le urla erano di mio padre, me lo ha detto la mamma dopo. Sicuramente le sentinelle avevano torturato mio padre mentre mia madre veniva interrogata. Lo avevano fatto apposta per far sentire le urla a mia madre che era sopra.

Perché sua madre aveva portato anche lei all’interrogatorio?
Sperava che sarebbero stati più sensibili nei suoi confronti. Aveva chiesto che fossi presente anch’io ma le guardie non mi hanno permesso di entrare con lei. Anche di fronte a una bambina il loro cuore era di pietra.

Torniamo alla notte successiva a quell’interrogatorio. Mi diceva che a sua madre venne la febbre alta…
Sì, quella notte è stata brutta, orribile, ma allo stesso tempo è stata anche bella perché mi è sembrato di avere visto Gesù. La mamma era malata, aveva la febbre alta e io cercavo di aiutarla come potevo, così piccolina come ero. Poi mi sono addormentata, quando ho visto che la mamma si era un po’ assopita. Ho fatto un sogno. Nel sogno andavo a prendere della legna per il fuoco quando ho sentito una mano sulla spalla. Allora ho alzato gli occhi e ho visto l’immagine di Gesù che era tutto in bianco e mi ha parlato. Dal momento che quella notte avevo fatto un brutto pensiero verso l’umanità, verso tutto quello che era causa di tutto questo nostro male, mi ero sentita cattiva e avevo pregato il signore di perdonarmi. Per questo ho sognato Gesù che mi ha detto di non preoccuparmi, di credere sempre in lui, di avere fede nel fatto che tutto sarebbe andato bene.
Poi la mattina ho raccontato il sogno a mia madre, che già stava meglio, e lei mi ha detto che saremmo andati in Italia e che Gesù era venuto per aiutare lei e me a decidere di andare a stare dai nonni in Italia. In Italia, a Isola Vicentina, c’era la famiglia di origine di sua madre che ci ospitò in quei mesi difficili.

Riusciste a rimanere in contatto con suo padre?
Sì, lì ci arrivò la sua prima lettera dopo quasi un anno nel corso del quale non avevamo avuto sue notizie. In Italia ho vissuto un periodo spensierato, poi arrivò quella lettera che diceva che papà era vivo. La mamma ha sentito il dovere di tornare a Lussinpiccolo, per stargli vicino.

Che cosa vi scriveva suo padre?
Sempre le solite cose, diceva che stava bene. Nella prima lettera aveva scritto che si trovava nel carcere di Goli Otok e stava bene.

In che lingua vi aveva scritto?
In croato.

Voi sapevate il croato?
Ancora no. Avevamo capito che era vivo e stava a Goli Otok, nient’altro. Era la sua scrittura, la riconoscevamo. L’importante era che fosse vivo. Tornati a Lussinpiccolo abbiamo cominciato una corrispondenza regolare con mio padre. Mia madre non scriveva niente di ciò che subivamo, sapeva che non doveva farlo. Mio padre scriveva sempre che stava bene e che aveva bisogno di sigarette. In una lettera di quel periodo io scrissi sotto dettatura le mie prime parole in croato: “Voli Te”, “Ti voglio bene”, firmato “Tua figlia”.

Dopo molti altri mesi, alla fine del 1953, vi arrivò la comunicazione che per la prima volta vi veniva concessa l’opportunità di fare visita a suo padre sull’Isola di Goli Otok…
Sì, mia madre decise subito di partire e così abbiamo fatto. Era autunno inoltrato e da Lussinpiccolo siamo andate in nave a Fiume e poi – a bordo della nave Punat (la nave utilizzata anche per il trasporto degli internati, ndr) da Fiume a Goli Otok.
Eravamo i primi familiari a compiere quel viaggio.
La notte precedente l’abbiamo trascorsa alla stazione di Fiume. Non abbiamo dormito praticamente, per la paura e per tutto quello che ci aspettava. Non sapevamo quello che ci sarebbe successo, non era facile addormentarsi. Abbiamo trascorso la notte sulle panche della stazione ma come noi c’era tanta altra gente. In quegli anni lì non era così insolito.
Faceva freddo, era novembre, faceva molto freddo. Poi avevamo anche il freddo nel cuore, nell’anima. Avevamo paura di tutto ciò che sarebbe dovuto succedere il giorno dopo.

Che cosa vi aspettavate?
Mah, non lo so. C’era il desiderio di vedere papà vivo, di sapere che c’era. Sicuramente non ci aspettavamo quello che avremmo poi visto a Goli Otok.

Sua madre che cosa le aveva detto prima di partire?
Mi aveva detto: “Andiamo a trovare papà”. Eravamo tornati apposta in Jugoslavia.

In quei giorni come vedeva sua madre? Era serena, felice o impaurita?
Impaurita, soltanto impaurita.

Non prevaleva la gioia di rivedere il marito?
No, prevaleva la paura. C’era gioia, forse, ma non lo dimostrava Sentiva il dovere che aveva verso mio padre e verso la famiglia. Sapeva che papà desiderava questa visita, la desiderava anche lei ma in lei prevaleva la paura ed è stato l’obbligo verso il papà che ci ha fatto andare.

Lei vuol dire che se sua madre avesse potuto scegliere liberamente non sarebbe partita?
La paura era molto grande. E’ andata perché sapeva che doveva farlo, che non poteva avere l’opportunità di andare a trovare papà e non farlo.

Lei, Claudia, che cosa desiderava?
Io anche desideravo vedere papà, quello di sicuro. Forse però anche io.
Noi eravamo sempre avvolti dalla tristezza, c’era sempre molta tristezza nella mia casa quando eravamo io e la mamma. Non c’era gioia, non non c’era volontà di niente, solo la necessità di sopravvivere e di aspettare che papà tornasse a casa.

Torniamo a quella mattina a Fiume.
Sì, ci siamo svegliati molto presto perché la mamma aveva paura di fare tardi. C’era la nebbia e siamo arrivate davanti al molo dove c’era nave Punat e altra gente che aspettava per imbarcarsi. Ricordo che quando è partita a nave non ha aspettato i ritardatari che vedevamo agitarsi sulla banchina. La mamma mi disse: “poveracci, chissà da dove vengono”. Nessuno li ha aspettati.

Chi c’era a bordo di questa nave?
L’equipaggio. Avevano pistole alla cintola, ci guardavano con malvagità.

Erano agenti della polizia politica UDBa?
Sì, ci hanno chiamato, dovevamo dire chi andavamo a trovare.

Quanti eravate voi familiari?
Una ventina. Era il primo viaggio a Goli Otok che veniva autorizzato.

Lei conosceva il nome della nave, “Punat”?
No, non non mi diceva nulla. Era la stessa che aveva portato sull’isola mio padre ma allora ancora non lo sapevo.

Cosa ricorda di quella nave?
Mi ricordo i poliziotti. Sembrava che volessero sentire i nostri discorsi. Nessuno di noi parlava, la mamma mi teneva la mano.

Capivate che cosa dicevano gli altri familiari e i membri dell’equipaggio?
No, niente. D’altra parte nessuno parlava, c’era silenzio dovuto all’incognito.
Siamo partiti intorno alle 6 di mattina e siamo arrivati quando sole era alto: un lungo viaggio, durato forse 3-4 ore, forse di più. Abbiamo viaggiato in una specie di salone.

Mi racconta il suo primo sguardo su Goli Otok?
A me e’ sembrata veramente nuda, come indica il nome. Ci sara’ stato anche qualche albero, non lo so. A me e’ sembrata proprio una roccia nuda, una roccia senza vita.

Lei sapeva cosa voleva dire Goli Otok (“Isola Calva” in croato, ndr)?
No.

Quindi le ha fatto questa impressione anche senza che lei ne conoscesse il significato?
Sì. Poi dalla nave abbiamo visto dei casermoni, brutti, grigi.

Vi hanno fatto scendere subito?
No. Abbiamo aspettato due ore, non sapevamo perché. Poi sono sbucati da una parte dei carcerati seminudi che non sembravano neanche esseri umani. Dopo ci hanno detto poi che erano detenuti che stavano tornando dal lavoro forzato. Tra quei carcerati mio padre non c’era.
Subito dopo hanno cominciato a chiamare per nome. Ci chiamavano con l’altoparlante. Ci hanno fatto scendere, aspettavamo in fila. Non eravamo in tanti e quando ci hanno chiamato siamo andati dove ci hanno detto di andare.
Era un corridoio molto stretto. La sentinella ci ha accompagnato e siamo entrati in uno sgabuzzino, un piccolo stanzino triangolare, c’era una panca io e la mamma ci siamo messe sedute. E’ entrato mio padre. Era irriconoscibile, era pelato, e mia madre in quel momento voleva chiedergli che cosa gli avessero fatto. Papà ha capito che mia madre intendeva fargli quella domanda e sapeva che non sarebbe stata opportuna. Allora ha preceduto mia madre dicendo subito: “Io sto bene, sto bene. Non c’è niente, non ho niente, ho solo un po’ di mal di stomaco”. In realtà pesava 35 chili ed era chiaro che c’era qualcosa che non andava.

Eravate soli in quella stanza?
No, c’era la sentinella ferma ad ascoltare.
Soltanto quindici minuti siamo state insieme a papà. Abbracciati senza poter dire niente perché l’emozione non ci permetteva di dire molto. Anche perché abbiamo capito subito che non si doveva dire niente. Qualsiasi cosa avrebbe potuto danneggiare mio padre. Siamo stati abbracciati quei quindici minuti: io seduta da una parte della panca, mia madre dall’altra, con le lacrime agli occhi. Quei 15 minuti sono volati via.

Come vi siete salutati?
Ci siamo abbracciati un’altra volta. La sentinella non ci ha permesso di restare più a lungo.
A mia mamma e a me era sembrato che papà volesse dire qualcosa. Poi invece è uscito e non ci ha neppure guardato, non si è voltato per darci un cenno di speranza.

Che cosa voleva dire secondo lei?
Che stava male, che non aveva molta speranza, che forse sarebbe anche morto per le atrocità che subiva.

Andando via lei ha provato il desiderio di portare suo padre con sé?
Sì, perché in questo modo le nostre sofferenze sarebbero finite. Volevo tornare in Italia, avere una famiglia unita e sentire un po’ di felicità, meno sofferenza. E invece ci siamo separati senza sapere se ci saremmo rivisti ancora. Ogni lettera era attesa con ansia. Se tardava ad arrivare subito pensavamo che mio padre fosse morto.

Che cosa ricorda del ritorno da Goli Otok a Fiume?
Mi ricordo che all’andata c’era silenzio assoluto mentre al ritorno erano tutti agitati: tutti avevano capito che in quel carcere accadevano cose orrende.

Che cosa dicevano gli altri familiari?
Parlavano, sembrava che non avessero neppure paura delle sentinelle tanto era l’orrore che avevano intuito.

Lei e sua madre che cosa facevate?
Io e mia madre stavamo per conto nostro, eravamo mute. Nessuno ci si è avvicinato, noi non ci siamo avvicinati a nessuno.

Non vi sentivate parte di uno stesso dolore?
Mah, non sapendo la lingua che cosa si poteva dire? Non si poteva comunicare, forse mamma l’avrebbe fatto…

Parliamo del ritorno a casa, a Lussino.
La mamma ha trovato lavoro in una fabbrica di trasformazione del pesce. In quell’epoca ormai si viveva meglio, con più mezzi. Anche la gente aveva cominciato a comportarsi in modo diverso. Mamma aveva amiche, colleghe che qualche volta venivano da noi.

Ma la vera svolta avvenne nel novembre 1954, quando vi arrivò la notizia che suo padre era stato amnistiato…
Sì, ci scrissero che papà era stato graziato. Eravamo quasi increduli.

Il 31 dicembre 1954 – nel giorno di San Silvestro – suo padre, finalmente, tornò a casa. Mi racconta la scena?
Io e la mamma stavamo a casa, praticamente eravamo già a letto, era sera molto tardi. Abbiamo sentito bussare alla porta e mia mamma – che di solito chiedeva sempre “chi e’” – quella volta è andata subito ad aprire e si è vista davanti mio padre.
Anche quella volta era irriconoscibile, aveva la testa pelata, era vestito male, aveva una bruttissima giacca blu. Mia madre lo ha fatto entrare, mi ha chiamato e naturalmente sono stata molto felice di vedere che papa’ era tornato a casa. In quel momento non ho pensato al suo stato, ho pensato che tutto sarebbe andato bene dal momento che era arrivato a casa. Invece, poi, i primi mesi sono stati duri.

Quella sera le è apparso come le era apparso sull’isola?
Sì, era uguale. L’aspetto era ancora più stanco ma la felicità me lo ha fatto vedere con occhi diversi.
Voleva parlare con noi ma la mamma ha capito che aveva bisogno solo di riposare. Ha mangiato qualcosa e per l’enorme stanchezza si e’ addormentato in cucina, sul canape’ che avevamo lì. Poi, durante la notte si è svegliato, è venuto in camera nostra ad abbracciarci. Aveva bisogno di sentire che era vicino a noi.

Lei quella notte come ha dormito?
Al mattino mi sembrava quasi impossibile. Al mattino papà si è sbarbato, ha messo il vestito nuovo. Sembrava un altro ma era tanto magro. Io lo contemplavo, era silenzioso. Parlava pochissimo fin dal primo giorno, ha parlato pochissimo per alcuni mesi, chiuso in se stesso. Le torture subite avevano causato in lui uno stato di paura incontrollabile e in quello stato si sentiva del tutto solo. Noi volevamo aiutarlo ma non sapevamo come. Lui si chiudeva sempre di più, non parlava, passeggiava moltissimo, la sua ulcera duodenale peggiorava. Cercava lavoro ma nessuno glielo dava, perché era sempre un nemico del popolo. Era la mamma che portava i soldi a casa, lui si sentiva un peso nella famiglia.

Noi volevamo raccontargli quello che avevamo vissuto quando non c’era ma lo vedevamo così distrutto che non avevamo il coraggio.
Alla fine, un giorno, ha deciso di raccontarci che cosa gli era successo.

Quando decise di parlare?
Dopo circa tre o quattro mesi…

Mi racconti come è andata..
Quando mio padre si metteva a raccontare la mamma chiudeva porte e finestre, metteva dei tendoni: aveva paura che anche i muri potessero sentire e raccontare. Ci mettevamo sedute e lui ci raccontava per giorni e giorni, cercava di seguire un ordine cronologico.
Sulle prime noi facevamo fatica a credere alle cose che ci raccontava. Le aveva anche annotate – non sull’isola, dopo – in quei mesi di silenzio. Ci ha raccontato solo alcune delle cose, così si è alleggerito un po’ il cuore. Da allora nella nostra famiglia ha cominciato ad esserci un po’ più di spensieratezza, di normalità.

Quando raccontava suo padre?
Alla sera, seduti su questo canapè, in cucina. Era un passaggio necessario. All’inizio non aveva fiducia in noi, poi ha capito che le cose che ci confidava non sarebbero uscite da quella cucina umida, brutta, sotterranea. Mio padre era molto eloquente, parlava molto bene, lo fece per molte sere.

Perché dopo tutto quello che avevate vissuto siete rimasti a Lussinpiccolo, in Jugoslavia?
Perché dopo papà era una persona distrutta. Non aveva più desiderio di niente, voleva finire il resto della sua vita in pace.
Anche la mamma ormai non aveva più voglia di trasferirsi.
Siamo stati distrutti da quello che sapevamo e non potevamo dire. Papà aveva paura di non ottenere il permesso di andare in Italia.

Aveva paura di tornare sconfitto in Italia?
Non provò a tornare anche per tale ragione, sicuramente.

Lei mi ha detto che suo padre continuò a essere sempre comunista. Da comunista come si spiegava tali brutalità da parte di altri comunisti? Non dava la colpa al sistema marxista-leninista?
No, dava la colpa al sistema Jugoslavo. Pensava che il comunismo vero era quello che c’era in Russia.

Non sapeva che anche in Russia facevano cose analoghe? Che quello che lui aveva subito a Goli Otok altri lo avevano subito nei gulag di Stalin?
Questo non lo so. Questo non l’ha detto mai. Forse lo sapeva ma era talmente preso dall’ideologia….

Secondo lei è rimasto comunista per non ammettere una sconfitta ideale o più per la paura di essere di nuovo perseguitato? Qual è la vera molla di questa lealtà estrema manifestata da suo padre?
Ci credeva veramente, non lo riteneva un’utopia. È morto pensando ad un futuro migliore nel quale ci sarebbe stata giustizia, fratellanza, benessere per tutti i popoli, per ogni essere umano.

Per 15 anni, tra la liberazione nel 1954-55 e la morte avvenuta nel 1970 suo padre ha finto di essere stato rieducato con successo?
Sì, è rimasto silenzioso.

Secondo lei suo padre, prima di morire, che bilancio ha fatto della sua vita?
È rimasto puro, onesto, leale come da ragazzo. Il suo atteggiamento verso la vita non è diventato negativo, nonostante tutto.

Lei non ha mai ritenuto suo padre colpevole di aver reso difficile la vita di sua madre e la prima parte della sua vita?
Forse. Ma tanto grande era il suo attaccamento all’idea, tanto l’entusiasmo che non so se gli avrei potuto fare una colpa di questo.. Era veramente sincero, eravamo poveri e siamo rimasti poveri.

Lui però, in qualche momento, si è sentito in colpa verso di voi?
Quello sì, sicuramente.

Non ha mai detto: “ho sbagliato tutto”?
Io non gliel’ho mai sentito dire. Forse l’ha anche detto.

Lei oggi non pensa che suo padre abbia sbagliato tutto?
Io penso che ha sbagliato tutto, sì. Però lo vedo pure come un grand’uomo, perché per me è un grand’uomo uno che subisce quello che lui ha subito e rimane attaccato a un’idea nella quale credeva. Anche se quella idea è solo un’utopia.